Per settimane abbiamo visto tutti lo stesso film. Tre operai della Fiat di Melfi, tre duri e puri della Fiom, vengono ingiustamente licenziati dalla Fiat. Un giudice obbliga l’azienda a reintegrarli, mentre il Lingotto, dispettoso e prepotente, non li rivuole tra i piedi. I tre lavoratori si ribellano e fanno valere i propri diritti. Le televisioni li intervistano a profusione. I giornali pubblicano la loro foto con l’aria un po’ mesta e un po’ agguerrita. Di giorno in giorno l’aura che li ammanta si fa più fulgida. Stanno tutti (o quasi) dalla loro parte. Il capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Il mondo cattolico, con in testa il presidente della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco. I politici di ogni latitudine. Diventa la storia, cupa e picaresca, dell’estate. La classe operaia schiaccia il padrone. I deboli stritolano il più forte. I buoni stanno tutti da una parte, i cattivi dall’altra.
Panorama ha riavvolto la pellicola, per tornare alla notte fra il 6 e il 7 luglio scorsi: quella del sabotaggio e del diverbio, durante uno sciopero, con alcuni responsabili dello stabilimento. Una discussione che porta al licenziamento dei tre lavoratori: Giovanni Barozzino, Antonio Lamorte eMarco Pignatelli. A Melfi, tra omertà, paura e reticenze, Panorama ha parlato con chi quella notte c’era. Dipendenti rimasti in silenzio per settimane, intimoriti da possibili ritorsioni. Con molte cautele, in luoghi appartati, hanno raccontato una trama differente. Non prima però di chiedere (e ottenere) l’anonimato: «Se rilascio un’intervista con nome e cognome, mi linciano» ha affermato un operaio. «Succederebbe di tutto, la mia vita diventarebbe un inferno. Non camperei più. Dovrei cambiare stabilimento e anche nel mio paese avrei problemi. Nemmeno al magistrato direi la verità».
Lui e gli altri colleghi intervistati da Panorama riscrivono un canovaccio che sembrava assodato. Le provocazioni e gli insulti della Fiom a chi non scioperava. Il piano di ammutinamento. Il blocco delle macchine. Il diverbio con gli uomini dell’azienda. La pervicacia con cui i tre stazionano sulle linee produttive, ignorando gli ordini. Riferiscono tutti, separatamente, la stessa storia, variando solo sfumature. I testimoni sono dipendenti della Fiat che fanno parte di sigle sindacali differenti: tra di loro si conoscono appena. C’è pure una persona da sempre vicina alla Fiom. Questo è il racconto di cosa successe quella notte. E di come Panoramaha messo insieme i pezzi del puzzle.
Melfi, lunedì 30 agosto 2010: mancano 10 minuti alle 5 di pomeriggio. In un minuscolo ufficio nel centro storico si presenta un uomo alto, con il volto preoccupato. Indossa una camicia verde a maniche corte, pantaloncini dello stesso colore e sandali da trekking. Lavora alla Fiat di Melfi da molti anni, è un sindacalista. Prima ancora di sedere, scandisce: «Parlo solo a una condizione: l’anonimato. Altrimenti in fabbrica ho chiuso. Mi darebbero del traditore. Il voto non me lo darebbe più nessuno. La gente pensa che dobbiamo schierarci con i tre a prescindere. È un momento in cui la verità è scomoda: stanno tutti con la Fiom».
Solo dopo avere ricevuto rassicurazioni si siede, stira le gambe e comincia a parlare. È uno dei dieci sindacalisti che la notte fra il 6 e il 7 luglio organizza il corteo: al fianco di Barozzino e Lamorte, delegati di fabbrica della Fiom. L’agitazione viene indetta unitariamente da tutte le sigle, all’inizio del turno di notte: intorno alle 10 di sera. È l’ennesimo di una lunga serie. Gli operai protestano da nove giorni per la decisione della Fiat di aumentare la produttività. Decidono di indire una protesta anche quel giorno, alla catena di montaggio. Partecipano 52 lavoratori sui 735 impiegati sulle linee: appena il 7 per cento. Lo sciopero parte alle 2 meno un quarto. «Doveva durare un’ora, un’ora e mezzo al massimo» racconta aPanorama il sindacalista. «Quelli della Fiom, armati di fischietto e vuvuzela, cominciano il corteo. Fra noi sindacalisti si discute di cosa fare. Io, nell’attesa, vado a fumare una sigaretta».
L’operaio, prima di continuare il racconto, si risistema sulla sedia: «Quando rientro, verso le 2.15, vedo che davanti ai colleghi ci sono una decina di responsabili dell’azienda. E Lamorte e Barozzino sono in mezzo alla linea dei carrellini, che sono fermi». L’operaio si riferisce a una pista su cui corrono, appunto, dei piccoli robot. Portano accessori da montare sulle auto che scorrono sulle linee accanto: bocchettoni, cinture, tappetini. I due delegati della Fiom stazionano davanti alla pista. Dopo si aggiungerà Pignatelli. «Lo sappiamo che là non ci possiamo stare, e appena ce ne siamo resi conto ci siamo spostati tutti» chiarisce a Panorama il sindacalista. «Tanto che un mio collega urla ai due: “Guagliò, toglietevi da lì se no vi fanno i raggi”» che in dialetto lucano vuol dire «vi fanno male».
Qualcuno, riferisce l’uomo, cerca di prenderli con le buone: «Andiamocene, che vi offro il caffè». Loro niente. Il responsabile del reparto li chiama per nome e cognome, chiede di togliersi di lì, aggiungendo che sono passibili di licenziamento. Una, due, dieci volte… «E loro immobili. Lo guardano con aria di sfida, le braccia incrociate. Rimangono così almeno un quarto d’ora».
Il sindacalista si ferma un attimo. Si versa un po’ d’acqua in un bicchiere di plastica. Rimane in silenzio a lungo. «Le regole le conosciamo» continua. «Sappiamo dove possiamo stare e dove no. E soprattutto lo sa Barozzino: i cortei sono il suo pane». E infatti, rivela il sindacalista, è lui alla guida del corteo: decide il percorso e dove far sostare gli scioperanti. È il delegato più votato dello stabilimento: 161 preferenze alle ultime elezioni di giugno. È al quinto mandato. Viene considerato il leader dell’ala più oltranzista e meno dialogante della Fiom, che alla Fiat di Melfi è la sigla con più iscritti e rappresentanti.
L’operaio, quindi, ragiona: «Durante i cortei ci siamo sempre fermati nell’area relax, perché invece questa volta ci ha portato lì, davanti ai carrellini? Ha fatto un errore che non è da lui. E difatti probabilmente un errore non è stato».
Ancora più esplicito è un altro testimone che ha accettato di parlare conPanorama. Lo incontriamo nella tarda mattinata di martedì 31 agosto, davanti a un anonimo capannone della zona industriale di Melfi, a poche centinaia di metri dalla Fiat. Porta la maglietta azzurra con la scritta Sata: il nome dello stabilimento lucano del Lingotto. Ha la barba di qualche giorno: ingrigita, come i capelli. Anche lui, come il primo testimone, è un rappresentante sindacale. E anche lui è tra gli organizzatori del corteo. Entra in macchina dopo essersi guardato intorno circospetto. La premessa, cortese ma risoluta, è sempre la stessa: parlerà solo a condizione dell’anonimato. Dunque attacca: «Quelli della Fiom hanno tutti i torti in questa storia. Quella notte non ottenevano niente con gli scioperi e hanno fatto un sabotaggio».
Accuse gravissime. E in netto contrasto con la ricostruzione fatta daEmilio Minio, il giudice del lavoro del tribunale di Melfi che il 9 agosto ha ordinato alla Fiat il reintegro dei tre. Il sindacalista allora argomenta: «I responsabili dello stabilimento avevano riorganizzato la produzione, spostando gli operai che non scioperavano su un’unica linea produttiva. La Fiom si è resa conto di non avere fatto grandi danni e ha studiato un’azione più eclatante». L’organizzazione dei metalmeccanici della Cgil, secondo il testimone, «porta il corteo verso i carrellini, con l’idea di bloccare la linea di montaggio rimasta in funzione». E perché non li avete fermati? «Il gruppo alla fine lo guidano loro, a me non importa il percorso. Nella confusione non ci eravamo accorti di essere troppo vicini al sensore. Ma quando i nostri responsabili ce l’hanno fatto notare, noi ci siamo allontanati subito. E abbiamo pure detto ai due di togliersi da lì. Ricordo Lamorte, impalato e a braccia conserte. Loro, del resto, si sentono i padroni dello stabilimento: non hanno paura. Se la sono cercata. E il gestore, bruscamente, gli ha detto di farsi da parte. La discussione è andata avanti almeno un quarto d’ora».
Il sindacalista, prima di cacciare fuori l’altro rospo, guarda fuori dal finestrino: «Per inciso: a me, ‘sti cortei all’interno dello stabilimento non piacciono per niente. Non si può passare davanti agli operai che non scioperano e insultarli. Quelli della Fiom urlano volgarità di ogni tipo: “schiavi”, “lavorate sempre”, “vi fate rompere il culo”, “siete quattro bastardi”. È un’umiliazione intollerabile. Vedo brave persone in difficoltà, costrette a calare la testa. Anche le operaie vengono prese a maleparole dalle iscritte: “zoccola”, “infame”, “puttana”». Anche quella sera ci furono insulti? «Purtroppo sì» sibila il sindacalista. Che, in qualche maniera, tenta anche di scusarsi: «I cortei siamo costretti a farli per compiacere la Fiom. Per me basterebbe chiudersi in una saletta e discutere. I cortei servono solo a umiliare la gente che non vuole manifestare. E tanti, pur di non essere insultati, scioperano controvoglia».
Il sindacalista guarda fuori dal finestrino, ancora una volta. È un uomo ben piazzato e sicuro di sé. Ma anche lui sconta paura e deferenza. «Se rilascio un’intervista con nome e cognome, mi linciano. Non camperei più. Dovrei cambiare stabilimento. E anche nel mio paese avrei problemi, dato che molti lavorano alla Fiat». E se venisse chiamato dal magistrato racconterebbe com’è andata? Mentre riflette, l’uomo storce la bocca: «No, la verità non la direi. Il magistrato prende nome e cognome: e io l’eroe non lo posso fare. Nessuno oggi si può permettere di fare una ricostruzione favorevole alla Fiat. All’interno dello stabilimento, dopo che il giudice ha dato ragione alla Fiom, tutti sono schierati con gli operai licenziati. La gente sa quello che è successo, ma non ne parla. Va dove tira il vento: e il vento oggi tira a favore di Barozzino, Lamorte e Pignatelli».
I tre, da settimane, battono la Basilicata per alimentare la propria causa. Domenica sera, 29 agosto, a Rionero in Vulture, 20 chilometri da Melfi, partecipano a un dibattito organizzato da Sinistra ecologia e libertà. Alle spalle dei tre troneggia un telo nero con la gigantografia di Che Guevara. Un centinaio di persone ascolta attento la discussione. Dopo avere ringraziato dell’intervento il «compagno Lamorte », Barozzino prende la parola. La platea si scalda: seguono applausi e urla di sostegno. Finito il dibattito, acconsente di parlare con Panorama nel retro di un bar. Ordina un succo d’arancia e si siede ben disposto attorno a un tavolino rotondo. Dicono che costringete la gente a scioperare, fa notare il cronista. Barozzino ride: «Ma figurati? Te l’immagini? Questi davvero si stanno arrampicando sugli specchi». Però avete fermato la produzione. Il delegato Fiom è risoluto: «Noi non abbiamo impedito il transito dei carrelli, lo ha scritto pure il giudice» chiarisce subito. «I carrelli erano già fermi, non siamo stati noi a bloccarli. Per nessuna ragione al mondo l’avremmo fatto. Ma che pensano? Che dopo 10 anni di sindacato esco pazzo e faccio una cosa del genere!».
Poi aggiunge deciso: «Io, fra l’altro, non c’entro niente. Sono intervenuto solo quando il preposto ha minacciato di licenziare Pignatelli. Allora gli ho detto: “Ma chi ti credi di essere? Questo non è un comportamento da avere con un lavoratore”. E lui che fa? Se la prende anche con me. Comincia a ripetere per dieci volte: “Barozzino e Lamorte, siete contestati”. Io allora gli dico che avrei fatto sciopero su tutto il montaggio. Ma gli altri delegati mi hanno detto di lasciare perdere». Interviene Lamorte, cappellino bianco calato sugli occhi ed erre arrotata. «Ci hanno attaccato in modo pretestuoso: non capivo nemmeno cosa mi stessero contestando. È chiaro che durante uno sciopero le linee si fermano. Solo dopo abbiamo capito che si riferivano ai carrelli. E quando ci siamo spostati, non sono ripartiti. Vuol dire che qualcuno aveva già spento tutto».
Il punto però non è cruciale, dice uno dei nove quadri della Fiat che quella notte si scontra con i tre operai. Incontra Panorama in un bar di Melfi, sperso nella campagna lucana. Porta la camicia azzurra con la sigla dello stabilimento sul taschino. Ha appena finito il turno di mattina: odora ancora di sudore e lamiera. «Quei tre sono stati licenziati perché gli è stato chiesto per un quarto d’ora di spostarsi da quella zona, per poter riprendere la produzione. E loro non l’hanno fatto. Il resto è irrilevante». La Fiat ha calcolato pure i danni che avrebbe causato il loro presunto «sabotaggio» durato più di mezz’ora: 22 vetture perse, per 250 mila euro di valore.
La scena, ricostruita dai testimoni, è questa. «Da lì vi dovete spostare» dice ai tre il capo dell’officina. Barozzino ironizza: «E diccelo tu dove dobbiamo andare». Quelli della Fiom assicurano al preposto che lo sciopero si sta svolgendo nella legalità. Il quadro li avverte più volte: «Lamorte, ti contesto l’ostacolo all’attività produttiva e la perdita di produzione». La stessa frase viene ripetuta a Barozzino e Pignatelli.
Un atteggiamento duro, considerato provocatorio dalla Fiom. Che dietro vede una strategia della Fiat, e del suo amministratore delegato, Sergio Marchionne, per indebolire il sindacato. «Io non lo so se Marchionne ha davvero una strategia» dice l’uomo a Panorama. «So solo che quella sera nessuno ha preso ordini da Torino. Abbiamo fatto solo quello che dovevamo». Lui stesso, ammette, è da sempre un simpatizzante della Fiom, «ma di quella che discute e non insulta animalescamente».
Il dipendente della Fiat è sicuro che «la verità sarà ristabilita»: «Il giudice ha sentito solo operai vicini al sindacato. In secondo grado credo che ci daranno ragione» dice con sicurezza. E se un altro giudice dovesse confermare il reintegro? «Chiederemo alla Fiat cosa fare. Ma se fosse per me li licenzierei il giorno dopo». Si passa una mano tra i capelli e ripete: «Ovviamente, però, non mi citi. Altrimenti qui licenziano pure me».
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